Queste scelte sonore – dovute ancora una volta alla collaborazione con il produttore Giovanni Calella (Adam Carpet, Georgeanna Kalweit and the Spokes, Alessandro Grazian) – scontornano una scrittura di puro storytelling che brano dopo brano costruisce una sorta di romanzo popolare sullo sradicamento, la speranza e la perdita di sé e delle ragioni del proprio essere o essere stati, in un passato ancestrale e mitologico e in un presente accelerato e ipertecnologico sempre più spersonalizzante.
La lettura di Scotellaro – di cui sono state musicale due poesie in apertura e chiusura del disco (“Padre mio” e “Pozzanghera Nera 18 aprile”) – di Luciano Bianciardi (a cui è dedicata “La promessa”, presto disponibile con un videoclip) e di Danilo Dolci, insieme ai numi tutelari di Gaber, Jannacci e Matteo Salvatore, hanno fatto poi il resto, lasciando libera di sfogarsi “una piccola epica personale” che travalica l’autobiografia per andare a cercare un significato in un mondo passato, lungo un filo rosso sangue (quello dei padri e dei figli, delle madri e dei fratelli) di canzoni sulla memoria, l’identità linguistica, il legame coi luoghi, l’evocazione attraverso i sensi, la bestemmia “come pratica lenitiva di chi può contare solo su di sé”: l’identità di ognuno che sfuma e che viene ricercata, anzi rivendicata per un sentore arcaico ben distante da ogni sciovinismo e mitizzazione.“Porteremo gli stessi panni” è un disco che ha messo le proprie radici fra le costole di chi scrive per allungare i propri rami sino alle altezze dei grattacieli e intercettare nell’aria digitale del presente gli scampoli di umanità – disgregata, disperata e rabbiosa, ma sempre vitale e non disposta ad arrendersi – di chi ha mantenuto lo spirito ribelle, come scriveva Scotellaro, della “turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti.”