“Plastic Fantastic” è il disco di debutto di James and the Butcher, uscito lo scorso ottobre per Rnc Music e rilanciato da Macramè in concomitanza con l’uscita, prevista a breve, del nuovo singolo “2nd plan”.
I Jatb sono la classica band italiana che non diresti mai essere tale – e difatti nel loro curriculum riportano un’apertura agli Awolnation e concerti in Uk, repubblica ceca e ucraina. Un suono e un approccio al songwriting decisamente internazionali, una cura dei dettagli e dell’esecuzione tanto lontana da certe sciatterie dell’indie nostrano quanto dagli schematismi rock d’oltreconfine. e soprattutto una capacità di incastrare con sorprendente facilità i generi più disparati e le suggestioni più diverse, per ottenere un disco electro-rock che transita attraverso tanti mondi sonori e li assembla usando come collante la voce multiforme di james dini e le alchimie di piano, synth ed elettronica del macellaio (la cui identità è ignota e sul palco si presenta mascherato), mentre il batterista giorgio corna imbastisce un drumming con la giusta dose di potenza e dinamismo.
Sono questo i Jatb, e basta ascoltare il nuovo singolo o la traccia di apertura, “Intimacy”, per capire di che pasta sono fatti: l’inizio al cardiopalma con una serrato beat sottocutaneo su cui si appoggiano brevilinei squarci di rumore, un’improvvisa microcellula funkeggiante e un crescendo di archi filmici e ritmiche imperiose verso un finale anticipato da una parte acustica. una minisuite di quattro minuti e mezzo che non annoia mai e che annuncia le peculiarità di “Plastic fantastic”. lavoro nel quale le canzoni – dirette, spontanee, eppure studiate – si muovono come ottovolanti vitaminici e spericolati in un luna park fantasmagorico. L’inconscio, i miracoli, la dimensione interiore, la rabbia, il coraggio, l’intimità e l’amore come un “miracoulous cancer” sono i temi portanti del disco ed incontrano una scrittura tanto diretta quanto ricca di mille dettagli che sfavillano tonalità scure, lisergicamente azzurre, violacee. là dove orchestrazioni evocative incontrano percussioni violente e riff abrasivi; intanto che si passa dalla ninna nanna al glitch/industrial, dalla musica classica al ritmo tribale, dal pop alla dance music. tutto questo con una credibilità e una capacità d’inventiva rare quanto la forza comunicativa di ogni singolo brano.
Le soluzioni sorprendenti si sprecano. il ritornello di un pezzo catchy come “Say my name”, che viene affidato ad un synth “macellato a dovere” fra microgranuli di rumore. oppure l’autorevolezza di due personali riletture della classicità brit in “The invisible boy” e “Loola-bye” (i primi due singoli). Brani da manuale come “Queen of the galaxy”, che accorpa rotondità melodica e ironia sardonica nei suoni; o gli innesti di quadrature electro sulle reminscenze hip hop di “Antibiotics”. E se “Until i will find her” sembra una ballata arrangiata da un morricone robotico non si è tanto lontani dalla chiave di lettura di “Plastic fantastic”. Un disco rock nel quale la parola rock è profondamente svecchiata e animata da una nuova visione. eterogenea, poliedrica, vertiginosa come ogni cosa rivolta verso il domani. ma sempre incredibilmente impattante, qui ed ora.
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