Ieri sera a Roma, nell’ultima delle tre date italiane del suo tour mondiale, Nick Cave ha officiato in musica la sua “comunione di massa”.
In una recente intervista l’artista australiano ha dichiarato, a proposito del tour mondiale che in questi primi giorni di novembre lo ha visto in Italia: «Questo tour è come una comunione di massa. È qualcosa di straordinario. Non sono mai stato parte di un tour come questo. È qualcosa di religioso». Si tratta del primo tour dopo la morte di suo figlio Arthur, caduto il 14 luglio 2015 da una scogliera a Brighton.
Dismessi i panni di rockstar votata all’autodistruzione e tornato alla luce dopo gli anni bui di droghe e alcool, oggi Cave veste quelli di un evangelista dark che esorcizza in musica la perdita del figlio.
Le luci si spengono poco dopo le 21 e si riaccendono alle 23.30 circa. Nel mezzo 18 brani di cui 10 dagli ultimi due album ed immancabili classici tra i quali Tupelo, The ship song, Into my arms e The mercy seat.
Ma setlist a parte, che per una discografia così ricca come quella di Cave finirà sempre per lasciar fuori più di qualche grande canzone, quello che lascia il segno ad ogni concerto è il suo rapporto con il pubblico. A Nick piace essere circondato, sfiorato, abbracciato e fin dal primo istante è evidente questa sua voglia di contatto. Così già dal secondo brano è in piedi sulla passerella che corre lungo tutta la larghezza del palco ed è ad un palmo di mano dai presenti. Si china sui fan, sfiora le loro mani, indicandole una ad una ma ritrae la sua lentamente come a dire “non è ancora il momento”.
Canta i versi di Magneto (“In love, in love, in love you laugh / In love you move, I move and one more time with feeling”) con un’intensità tale che quelle stelle di cui canta (“I love, you love, I laugh, you love / I’m sewn in heart and all the stars are splashed ‘cross the ceiling”) sembra davvero che macchino il soffitto buio dell’arena. In Higgs Boson Blues Nick chiede “can you feel my heartbeat?” e si lascia cadere in avanti affidandosi totalmente alle mani che lo sorreggono. Alcune sono puntate sul suo cuore mentre sussurra ripetutamente quei versi e accenna un sorriso.
Con agilità salta dalla passerella al palco, con movimenti sinuosi accompagna le note come un ballerino e il rito si celebra con alternanza di dolcezza e furore, momenti che forse nessuna band sa conciliare meglio dei Bad Seeds. Urla con voce da killer “walk ‘n’ cry” (From her to eternity), con timbro da crooner intona Into my Arms, una delle sue più belle canzoni d’amore, con voce sofferta e carica di emozione svela che meraviglia è Girl in amber. Cantata sul ciglio del parterre, I need you acquista il sapore di una dichiarazione d’amore al suo pubblico, un invito a farsi strada nel suo dolore.
Alla compostezza generale della band fa da contrasto Warren Ellis nei suoi momenti di “possessione” musicale. Con occhi spiritati e la barba da santone, suona il violino come una chitarra elettrica alla Pete Townshend, lo brandisce e taglia l’aria come se fosse una spada o una bacchetta magica. Ha carisma da vendere e tiene testa al magnetismo di Cave che osserva il pubblico cercando di non perdersi neanche un dettaglio come quando, tra le mani sollevate nelle prima file, scorge quelle incrociate di una coppia fissandole. Qualcuno gli porge una lettera che lui conserva nella tasca della immancabile giacca nera, firma qualche autografo, chiede una sciarpa per asciugarsi il viso. Qualcun’altro gli urla “come down” invitandolo a scendere tra la folla e lui risponde “come up!”. Di lì a poco accadrà anche questo. Infatti sul finire del primo brano dell’encore, The weeping song, scende nel parterre, si fa strada tra braccia e abbracci per raggiungere l’isoletta della telecamera. Da lì chiede silenzio, scandisce il ritmo con battito di mani lasciandosi accompagnare dal pubblico. Invita a metter via gli smartphone, ne sfila alcuni dalle mani e li lascia cadere al suolo. Il pathos si taglia a fette ed è un delitto perderselo dietro un display.
Ritorna sul palco portando con se alcuni fan, incita le prime file a fare lo stesso e tira letteralmente su alcuni di loro. Inizia la murder ballad Stagger Lee con il palco pieno di gente che canta e balla, mentre per Push the sky away, ultimo brano in scaletta, chiede a tutti di sedersi. Lui, da solo in piedi circondato da sguardi canta “And some people say it’s just rock and roll / Ah but it gets you right down to your soul”.
Il rito è compiuto. E chi non vi ha mai partecipato ha una lacuna da colmare il prima possibile.
(Cover Photo Credits: Gianfranco Schetter)
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