Si chiama “Coriandoli”, il nuovo disco de La Bestia Carenne, uscito per Bulbart con licenza Creative Commons a tre anni dal precedente “Catacatassc’” del 2014 e a sei dall’ep “Ponte” del 2011. Noi li abbiamo intervistati !
Artisticamente autoprodotto, “Coriandoli” è stato registrato tra l’isola di Procida, Cuma e il centro storico di Napoli, dove il quartetto ha sigillato nove canzoni imprevedibili, sorrette da una visione del folk spiccatamente obliqua e mescidata fra acustico elettrico ed elettronico, accorpando disparati frammenti sonori e suggestioni assortite in una forma di cantautorato viscerale, che preme sulle costole di chi ascolta immaginando architetture vorticose.
Un approccio, quello de la bestia, perfettamente riassunto dal titolo, con i coriandoli a dischiudere significati nel loro essere “frammenti marginali gettati per terra senza neppure la premura di spazzarli via. L’eco dopo il carnevale, la festa e la beffa, il fuoco e i pupazzi bruciati. Il ribaltamento controllato e momentaneo dello status quo che palesa i rapporti di potere e li manifesta spavaldamente. Ma dopo la baraonda si torna ad essere soli e schiavi ai margini della strada.”
E se col potere ha qualcosa a che fare l’immagine carnevalesca, ciò avviene anche perché “Coriandoli”, pur avvicinandosi solo all’idea di concept album, si muove sulla tematica definita delle prigionie, variandone l’accezione nei modi più differenti: il deserto della vita corporea, familiare, sociale e lavorativa; l’ipertrofia della sfera emotiva e psicologica; la fluidità acida delle sinapsi cerebrali. Lo stato di cattività come motore di un disco che sembra riscattarsi da queste costrizioni con un approccio sonoro sensibilmente libero.
“Dove è finita la nostra cattiveria? Quando abbiamo cominciato a centrare sempre il buco del cesso? L’arte e l’infanzia non sono certo fatte per pascolare nel seminato. Anche la musica indipendente è stata messa al guinzaglio dalle pratiche di produzione verticistiche del mercato. I risultati traducono perfettamente i terreni che tutti noi abbiamo arato. Cosa ci resta? Passare dalla parte di chi vince (ammesso di essere accolti)? Appiattire la nostra produzione sulle influenze di mercato? A noi va di pisciare e cacare un po’ qua e un po’ la tenendoci ben distanti dal cesso e dal seminato. Accettiamo l’odio e lo schifo senza estetizzazioni e glorificazioni.”
Immaginate se per uno strano scherzo del tempo i cantautori italiani del Folkstudio si trovassero catapultati al Club to Club e viceversa. Ecco, il suono de la bestia CARENNE sta lì. In una dimensione inimmaginabile ma concretizzata da queste canzoni dagli equilibri complessi eppure fertili, dove il suono non è lucidato a puntino ma neanche lo-fi e la bestia si nutre di molteplici pietanze.
Traccia dopo traccia spuntano infatti sequenze elettroniche, casse dritte, ricami di acustica, rimasugli funky-rock suonati in un bar di Kabul degli anni ’70, brevi lande di synth cementizi, bassi che incedono guardinghi, gracidii di elettriche, code di dolceamara indolenza desertica, elementi di musica concreta vissuti come oggetti sonori. E poi soluzioni armoniche e ritmiche che ritornano lungo la tracklist e connettono fra loro le tracce. Tutto ciò mentre la voce è sempre un po’ inquieta e le parole sono tremori di dolore, rospi sputati, colpi di scalpello, getti di sangue e umori, versi da tenersi stretti.
“Coriandoli” apparentemente è un disco da ascoltare nella sua interezza e a cui dedicare tempo e attenzione: nonostante ciò nasconde un singolo radio schizofrenico e ballabile come “La notte di San Giovanni”, ovvero l’electro-punk in salsa Carenne. E intanto si sente debitore verso il passato aprendosi con uno stretch-reverse dell’ultima traccia di “Catacatassc’” e chiudendosi con “Le mosche”, brano che ha la palpitazione “di chi attraversa l’ultimo covo, l’ultimo tunnel, l’ultimo tormento, l’ultima prigione, l’ultimo drone. Perché alla fine, forse, la bestia esce dalla gabbia e respira.” E l’aria è tutta piena di coriandoli.
Ecco come La Bestia Carenne ci ha parlato del suo nuovo album nell’intervista qui di seguito…
Chi è la bestia Carenne e da dove deriva questo nome?
Carenne è un minatore cinese morto durante le proteste dell’89. Da lui deriva il nome della band.
Dal vostro primo lavoro del 2011 ad oggi come vi siete evoluti?
I live sono stati il principale sprone. Concerti su concerti, gente nuova, posti nuovi, piatti nuovi, nuove portate. Abbiamo viaggiato per più di ventimila km e sono tanti in una Multipla piena di strumenti per non ascoltare anche un sacco di musica.
Anche solo leggendo la tracklist si nota come ogni canzone sia una storia, come se Coriandoli fosse un libro di racconti. Da cosa traggono ispirazione i vostri testi?
Non sono d’accordo. Innanzitutto perché leggendo una tracklist si capisce poco o nulla di un disco. Si capiscono i titoli delle canzoni, in genere. I brani di Coriandoli non sono racconti. Di prettamente narrativo c’è davvero poco, qualche descrizione ma null’altro. Comporre, come scrivere, è qualcosa che nasce non dalla volontà di raccontare una storia, bensì dall’urgenza di esprimere una condizione. La condizione che la nostra generazione vive quotidianamente.
Quanto c’è dentro della vostra terra, la Campania?
Premetto che all’interno della nostra formazione non siamo tutti campani, ma abbiamo tutti vissuto a Napoli abbastanza a lungo. Non saprei. La vita si fa condizionare a volte in forma caotica dal posto in cui si vive. Poi ordinato il caos, magari, non rimane niente di immediatamente riconoscibile. In ogni caso, non abbiamo mai sentito il bisogno di “cantare Napoli” perché crediamo che Napoli stessa non ne abbia bisogno. Ci riteniamo fortunati di essere cresciuti in un contesto sociale che ci ha concesso la capacità di saper guardare oltre la nostra terra e collezionare spunti dai luoghi e dalle situazioni più impensate.
Coriandoli è un concept album? I brani sono stati quindi scritti già con l’intento di dare un significato all’intero progetto?
Coriandoli non è un concept album, gira attorno al tema della prigionia, sociale, psicologica, materiale, fisica, ma non nel senso di un concept. Musicalmente cerca una sintesi, un’amalgama, ma questo non basta a definirlo “concept”. Non c’è una vera e propria propedeutica d’ascolto nel nostro lavoro, volevamo parlare di dinamiche di potere e prigionia, perché le consideriamo tematiche impellenti. L’abbiamo fatto.
Ascoltando il disco si notano influenze musicali diverse, a quali artisti e generi vi ispirate?
Data proprio la diversità delle nostre influenze è veramente difficile pensare a un artista o a un genere di riferimento in particolare. Ascoltiamo davvero molta musica, soprattutto in viaggio. Crediamo sia fondamentale per crearne di nuova. Siamo attenti sia al panorama musicale locale sia a quello internazionale e nelle nostre playlist camminano a braccetto Lucio Dalla, Midori Takada e Kendrick Lamar.
Questo per voi è un disco della rinascita o avete tentato di riconfermare un percorso che avevate già iniziato?
Non si può scegliere arbitrariamente di seguire un percorso, di morire o di rinascere. Questo disco non è altro che un checkpoint nel nostro percorso di crescita collettivo. Chi pensa di aver realizzato il disco definitivo sbaglia, nove volte su dieci.
Prossimi progetti?
Suonare, sempre suonare e viaggiare.
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