“L’Oreficeria” è il titolo del nuovo disco del cantautore bresciano Davide Viviani, che sarà disponibile (in spregio alle superstizioni) a partire da venerdì 17 novembre con la produzione di Alessandro “Asso” Stefana (PJ Harvey, Vinicio Capossela) e la collaborazione di Marco Parente.
Il nuovo disco di Davide Viviani è un ritrovo di chitarre languide, steel sottili come piccoli fasci di luce, batterie trotterellanti e pianoforti che incastonano precisi le melodie. Un suono di tramonto e frontiera, un piccolo intenso pezzo di provincia americana su una Gardesana da percorrere a tappe per lasciare che le canzoni respirino e decantino, sei anni dopo il debutto “Un giorno il mio ombrello sarà il tuo”. Si rafforza così, con quel tanto che basta, un disco breve, poco oltre i trenta minuti, ma di episodi importanti, che vivono da soli e stupiscono di continuo. Brani spontanei perché arrivati improvvisi, perlomeno quando non nascono da una visione. Tracce che cercano sempre, fra stati d’animo diversi, una quadra troppo capace di scivolare via.
Molti credono che scrivere canzoni sia anche (o soprattutto?) un mestiere d’artigiano. Se è così, allora Davide Viviani è decisamente un artigiano di valore. Uno di quelli che puoi trovare in un paese lacustre nascosto in una qualche remotissima via. Lì, all’opera, intento a intagliare canzoni come pezzi unici. Pezzi cardiaci che diventano fiato e suono, nulla di industriale e preconfezionato, un cantautore con spirito da outsider e tanta verità umana a portata di mani – e le mani enfiate da scampoli di dolore, ma pure di malinconica gioia, perché no. Lui, attraverso il titolo “L’Oreficeria”, suggerisce forse che quello del cantautore è un mestiere che riguarda il tempo, il nostro, e anche i meccanismi del vivere, il ticchettio dell’anima che si sfasa quando le cose non vanno come dovrebbero. Una questione di dettagli microscopici e strumenti da lavoro, qualcosa da tenersi al polso, o in tasca, per la vita. I suoi strumenti sono una voce tanto levigata e gentile da raddolcire quell’incredibile ritratto in dialetto bresciano che è “Salomon David”. E poi un’intenzione melodica che si equilibra su crepuscoli emotivi e quella rara capacità di accostare parole semplici per farle diventare squarci di immaginazione potente – ma in un modo carsico, sottocutaneo – o di raccontare piccole densissime storie dove le parole, tante, non sono mai troppe.
Vedi alla voce: “Ho capito che l’amore si pronuncia quando prende altre strade / che vibra e risuona quando è lode, con la macchina in folle a pensare / agli occhi negl’occhi, agli spruzzi con l’acqua e alle spalle lussate” (E a tutto quel mondo lì). Oppure: “Avrei dovuto appoggiare il cuore a terra / per evitare di farlo cadere / ma non saprei dove ubicarlo altrove, / si ostina a rimanere dove sta” (“Litania della città alta”). E fra un “carrucolone” e una talpa con le sue “zampone” “Nella colza” ecco il “dragone nero” di “Lu porcu meu”, le liquide immagini montabili e smontabili di “Agua” e un finale in inglese mozzafiato (“Leashed”) su una poesia di Valentina Gosetti. Sarà anche un songwriter artigiano Davide Viviani, ma in lui c’è qualcosa anche del radiografo, dell’entomologo di esistenze, di chi dice sinceramente di sé e ti accorgi che in realtà sta dicendo anche di te.
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