Florence + The Machine: ho visto il fuoco ballare

Florence + The Machine è tornata in Italia per le due date del High As Hope Tour, il 17 marzo all’Unipol Arena di Bologna e il 18 al Pala Alpitour di Torino. Due eventi imperdibili per assistere alla straordinaria energia live dell’Artista. Qui la nostra recensione della serata di Bologna. 

Ho visto il fuoco ballare. The next big thing is already here and we know it.

Florence Leontin Mary Welch, figlia di una professoressa di storia rinascimentale di cui sono imbevuti il visual e le atmosfere sonore, inizia a scrivere canzoni a diciott’anni, dopo un’adolescenza di cui non ama parlare, insieme alla babysitter di sua sorella minore, Isabella Summers, ancora oggi è sua grande amica, tastierista e co-autrice.

Il primo importante ingaggio Florence se lo guadagna prima ancora di fondare la sua band: una sera raggiunge poco sobria il dj promoter Mairead Nash nei bagni di un bar per cantargli “Something’s Got a Hold on Me” (Etta James, 1959). Beh, riesce a convincerlo del suo talento, lui rimane colpito e la scrittura per una festa privata aziendale, offrendosi di farle da manager. Da lì la partecipazione a molti festival inglesi nel 2008. La determinazione e la sfrontatezza hanno aperto la prima grande porta a questa giovane promessa dai capelli rossi che nel 2015 salirà da protagonista sul palco del Glastonbury Festival.

Il nome del progetto solista in origine doveva essere Florence Robot Was a Machine (giocando con i soprannomi di ‘Florence Robot’ e ‘Isabella Machine’). Florence + The Machine fu adottato dopo l’arrivo del chitarrista Robert Ackroyd, del batterista Chris Hayden, del produttore Mark Saunders e dell’arpista Tom Monger.

A 23 anni Florence Welch pubblica con i The Machine l’album di esordio “Lungs” (Island, 2009): 13 canzoni racchiuse tra “Dogs days are over” e “You’ve got the love”, capitanate dal singolo “Rabbit heart (Rise it up)”. Il carisma, il talento e il sound già ci sono, sospesi a metà tra il vintage e l’avanguardia. È Brit rock barocco.

Un disco aperto, arioso, a cui due anni dopo fanno da contrappunto le atmosfere e i colori di “Ceremonials” (Island, 2011), un secondo capitolo che si presenta già maturo e in cui alle preziose collaborazioni di produzione del primo album si aggiunge la regia di David LaChapelle per il video di “Spectrum (say my name)”. In “Shake it out” è invece invitata è l’amica di notti brave Taylor Swift. È un disco incredibilmente coinvolgente e morbido all’orecchio, con “aperture alla Florence che si ritrovano in “What the water gave me”.

Il terzo album, “How Big, How Blue, How Beautiful” (Island, 2015), è un’altra esperienza lontana dal mainstream e dal compiacere, l’autrice ci rivela che “dietro al nuovo disco ci sono un esaurimento nervoso e un pezzo di vita disordinata vissuto a Los Angeles, una specie di lost weekend”. Le paure e i tormenti emergono, e lo fanno per essere raccontati ed affrontati. In “What kind of man” Florence racconta di un uomo perennemente indeciso che gioca con lei come il gatto con il topo; poi prosegue esponendo le sue fragilità come in “Various storms and saints” e in “St Jude” il patrono delle cause perse; fino a tornare alla madre terra,“Mother”, la quale diventa l’appiglio per andare avanti e non fuggire in una dimensione altrove come invece ha fatto nel disco precedente con i cerimoniali. Qui Florence è determinata a farci sapere che “’Cause I’m gonna be free and I’m gonna be fine – Maybe not tonight” (“Delilah”).

L’ultimo disco è “High as Hope” (Virgin EMI, 2018), registrato a Los Angeles, che vede Florence per la prima volta anche nelle vesti di co-produttrice. “Hunger” è il primo singolo e la prima dichiarazione pubblica di un passato a braccetto con anoressia e droghe, con successive riflessioni sulla percezione del proprio aspetto fisico. In un’intervista Florence racconta come ha iniziato a chiedersi da dove derivi questa mancanza di amore verso se stessi e quale tipo di fame ciò ha portato a soddisfare, “I liked the idea to put a big spiritual unanswerable question in a pop song because you might not be able to answer it but you can dance about it”.

“Tell me what you need, oh, you look so free / The way you use your body, baby, come on and work it for me / Don’t let it get you down, you’re the best thing I’ve seen / We never found the answer but we knew one thing / We all have a hunger”

«Questa è una canzone su chi cerca l’amore in quelle cose che amore non sono, su chi non vuole sentirsi solo ma finisce per isolarsi lo stesso»: c’è poco spazio al divagare, anche questo disco arriva dritto dritto laddove deve arrivare.

Questo è il primo lavoro della band al quale non hanno partecipato alla produzione o all’esecuzione né Isabella SummersChristopher Lloyd Hayden. Isabella Summers la ritroviamo però in tour- tastiere, sintetizzatore, pianoforte e cori insieme a: Robert Ackroyd – chitarra; Tom Monger – arpa, xylofono; Cyrus Bayandor – basso; Aku Orraca-Tetteh – percussioni, cori; Dionne Douglas – violino, cori; Hazel Mills – tastiere, cori; Loren Humphrey – batteria.

Il titolo originario dell’album doveva essere “The end of Love” come la nona traccia dell’album che affronta la tematica del suicidio della nonna di Florence. Il titolo sta a dichiarare la fine di un amore doloroso che proviene dal vuoto e dal bisogno, e vuole dunque esprimere un messaggio positivo che però l’artista temeva non venisse colto. La solitudine e il dolore si sono lasciate abbracciare dalla speranza, e da lì la scelta di “rigirare” il titolo dell’album con “High as Hope”. Il messaggio è quello di chi va avanti perché ha capito che può farlo perché la speranza c’è e muove le cose.

La maggior parte dell’album è nata in uno studio vicino alla sua abitazione a South London, lavorando i demo che Florence ha fatto da sé, maneggiando vari strumenti dalle percussioni al piano, con l’aiuto di un abile ingegnere del suono.

Dal vivo Florence ha una interpretazione e una emotività a livelli talmente alti che ha dichiarato di doversi concentrare molto prima di salire sul palco, ricercando uno stato di trance a proposito del quale «Credo sia parte della performance in sé, è quasi una scommessa. E non è sempre confortevole. A volte la performance viene fuori dalla rabbia, da tutti i vaffanculo che dico a me stessa».

A vederla ballare e far prendere vita ai suoi brani con quella voce poderosa non si direbbe che Florence in adolescenza abbia sofferto di dislessia, disprassia (disturbo nella coordinazione dei movimenti e del linguaggio), insonnia e depressione. A traghettarla oltre è stata la potenza della musica, in cui Florence riversa molta della sua ombrosità e attraverso la quale esorcizza le sue debolezze buttandole fuori e tramutandole in forza.

Il concerto inizia puntuale in un’Unipol Arena di Bologna sold out già nelle primissime settimane di vendita.

Ci sono le cantanti brave e poi ci sono le fuori categoria. Già dai primi versi di “June”, il brano di apertura, si capisce dove collocare Florence Welch e la sua band. Segue l’esecuzione del singolo “Hunger” e poi brani vecchi che spingono sull’acceleratore di un primo set molto dinamico, si direbbe infuocato. Florence è in gran forma, molto presente, energica, scalza come sempre in completo contatto con il terreno. La sua voce è perfetta e mai affaticata nonostante le piroette e i salti che la portano a dimenarsi in preda ad un incontrollabile impulso tanto primitivo quanto ammaliante e seducente.

Non manca di ringraziare, di presentare alcuni brani, come “Patricia”, dedicata alla sua musa Patti Smith, di ricordarci che viene da un’isola profondamente europea e di raccontarci aneddoti con quella sua voce leggera e ariosa.

Il ritmo rallenta un poco e il concerto si fa più morbido. “Moderation” la dedica alle donne e “Delilah” la vede immersa nelle prime file, completamente affidata al pubblico: sicura di sé, empatica, “in viaggio”. ma anche poderosa e consapevolmente sensuale.

Apre l’encore “Big God”, un altro pezzo riuscitissimo del nuovo album, segue “Shake it out”, gran bel saluto all’arena gremita.

Due ore di performance catartica e ai massimi livelli energetici ed emotivi in cui tutto è al posto giusto. Florence Welch sembra una sciamana che ricerca e contraccambia l’afflato del pubblico. Ha uno stile da fuoriclasse e una presenza sia scenica che vocale senza sbavature.

È un’artista credibile e un femminile estremamente interessante nel panorama contemporaneo. Dei prossimi concerti non ce ne perderemo uno.

Setlist:

  1. June
  2. Hunger
  3. Between Two Lungs
  4. Only If for a Night
  5. Queen of Peace
  6. South London Forever
  7. Patricia
  8. Dog Days Are Over
  9. Ship to Wreck
  10. Moderation
  11. Sky Full of Song
  12. Cosmic Love
  13. 100 Years
  14. Delilah
  15. What Kind of Man

Encore:

  1. Big God
  2. Shake It Out

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