Sarà disponibile dal prossimo 12 dicembre su etichetta Ribéss Records il primo lavoro degli Unoauno, intitolato “Cronache carsiche”.
Al pop imperante in quello che a stento si può ancora chiamare underground gli Unoauno rispondono con una devozione totale al loro oltranzismo post-punk fuori tempo massimo e dunque assolutamente attuale, immersi nella consapevolezza che la musica non è uno scherzo, è una liturgia. Nessuna ironia post-moderna, dunque. Bensì una mistica della provincia cronica. L’Emilia paranoica che diventa carsica. Come uno scavare cunicoli nella bolla del contemporaneo. O un declamare ieratico lungo la statale digitale. Geografia. Cronaca. Sottrazione. Critica. Autocritica. Idealità: “Siamo profondamente contrari ad una musica che serve ad intrattenere. Forse questo è il punto più importante. La musica, certo, è un gioco. Ma un gioco estremamente serio. Odiamo le canzoncine che servono soltanto a divagare e a sorriderci su. La musica è un linguaggio antico, religioso. Rituale.”
Con un nome che è un segno x fra i risultati del tedio domenicale o la riproduzione in scala reale della realtà, gli Unoauno danno al loro debutto un titolo geografico, “Cronache carsiche”, una geografia esteriore che si infila dentro con un approccio che non diresti mai per dei classe ’94. La trap? No, i Lighting Bolt. L’indie-pop da cameretta? No, gli Shellac. Perché “la musica non è fatta per di-vertirsi: è fatta per in-vertirsi. L’esperienza conoscitiva-espressiva più grande che abbiamo. Un tale avrebbe detto è linguaggio dell’interiorità.”
“È tardi / Fai la spesa / Vai al PAM / Bambini e negri / Urli da Vietnam” cantano nel singolo “Restare vivi” e non si fatica a trovare una filiazione CSI – Massimo Volume in queste otto canzoni scarne, radiografiche, dove la voce prova a stare in piedi controvento e ci riesce. C’è un qualcosa di retromaniaco in questi suoni e in queste parole rigorosamente dette come materia tonale e ritmica. Ma c’è anche un incunearsi nell’oggi, un ridurre all’osso dove c’è carne che vibra, uno sbattere caparbiamente la testa contro il murale alfanumerico del presente, “Uno a uno contro il muro / Uno a uno muso duro” (“Dei”).
Basso, niente chitarre, niente sovraincisioni, una batteria in parte elettronica in parte no, qualche tasto di synth. Un rigore geometrico in presa diretta mixato volutamente grezzo – poco sentimentale, molto elettrico-digitale – a scarnificare tracce provenienti da un paesaggio carsico consumato dall’acqua, il mare adriatico, i lidi balneari deserti, le cataste di appartamenti, gli spazi stretti della metropolitana. Brani che chiamano in causa persone, luoghi, eventi precisi; lo scarto che permette di trasmettere qualcosa in modo inequivocabile e al contempo un’indeterminatezza che schiude significati molteplici. Tutti sigillati là dove “l’amore rivela la morte”, come cantano in “Clausura”. La morte che ci prende Unoauno, palla al centro con la vita.
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