La nostra intervista esclusiva a Galeffi in occasione dell’uscita del suo secondo lavoro “Settebello”. Un disco maturo e pretenzioso che vuole confermare il successo di “Scudetto”, ma che richiede uno sforzo in più per essere compreso.
Fuori oggi 20 marzo, “Settebello”, il nuovo disco di Galeffi per Maciste Dischi/Universal Music. L’album arriva a distanza di tre anni dal precedente lavoro che ha consacrato il cantautore romano nella scena indie italiana. “Settebello” è un disco maturo e consapevole con un occhio al passato, come bagaglio da cui attingere per migliorare un futuro che, oggi più che mai, risulta incerto.
Un trasferimento di casa, la solitudine che diventa produttiva, l’ascolto di molti vinili e un duro lavoro sulla scrittura, hanno reso Galeffi, pseudonimo di Marco Cantagalli, un cantautore più maturo e meno scanzonato.
“Settebello” non è forse un disco per tutti, come lui stesso ammette in questa intervista, ma riflette perfettamente l’evoluzione artistica e personale del cantautore romano. Un lavoro fatto di chiari/scuri che, come ogni passeggiata inferenziale che si rispetti, sta all’ascoltatore indagare e, forse, svelare.
Ciao Marco, oggi ci presenti il tuo nuovo disco “Settebello”. Come ti senti?
Male (Ride). Sono emozionato. Forse non è il periodo migliore per uscire con un disco però negli ultimi giorni mi sono allenato a scacciare via questo pensiero e a vedere il lato positivo delle cose. “Settebello” non è un disco “facilone”, ma cantautorale e, forse, in questi giorni in cui siamo tutti costretti a stare a casa e abbiamo più tempo a disposizione, potrebbe anche beneficiarne. Nel senso che la gente potrebbe fare questo grandissimo sacrificio di ascoltare due volte la stessa canzone arrivando fino alla fine senza skippare. E poi mi è sempre piaciuto fare l’anarchico bastian contrario: ho visto che molti di quegli artisti che uscivano in questo periodo hanno posticipato il disco. Ho pensato che, in questo senso, “Settebello” potrebbe essere un messaggio positivo per chi mi ascolta, per chi lo fa di rado o per chi non mi conosce ancora, per far loro un po’ di compagnia rendendo la vita obbligatoria in casa più piacevole.
A proposito, siamo in un momento particolare proprio a causa del Coronavirus. Tu come stai affrontando questo periodo?
Più o meno come al solito. Io, in fin dei conti, sono un pigrone e amo stare in casa. Mi piace guardare i film, suonare, ascoltare musica, giocare alla Play. Nella vita di tutti i giorni non amo molto uscire e lo faccio solo se è necessario. Tra l’altro, quando esco cerco di prendere poco la macchina perché, in questo, non sopporto Roma: perdere tempo nel traffico mi crea molto disagio. Anche se una birretta nei miei locali preferiti un po’ mi manca, questo periodo non mi sta cambiando molto. Spero, comunque, che questa cosa si risolva presto perché è davvero brutta.
“Per scrivere un disco in modo importante bisogna chiudersi, stare da solo e capire delle cose.”
Hai scritto il nuovo disco dopo esserti trasferito nel quartiere Montesacro a Roma. Un trasferimento è sicuramente un cambiamento che si riflette su tanti altri aspetti della vita come appunto, la creatività.
Si, in realtà mi sono spostato solo di un chilometro perché, comunque, prima vivevo in un quartiere vicino a Montesacro, ma ero a casa con i miei. Stare a casa da solo aumenta la libertà perché stai di più con te stesso, puoi fare come ti pare per quanto riguarda gli orari e la gestione di determinati spazi. Questa cosa era necessaria perché per scrivere un disco in modo importante bisogna chiudersi, stare da solo e capire delle cose. Non potendo ignorare chi ti circonda, continuare a stare a casa con i miei mi avrebbe distratto, mentre la solitudine è stata una molla per scrivere canzoni.
Rispetto a “Scudetto”, nei primi singoli estratti, ho trovato una scrittura più cantautorale che rendono il tuo percorso musicale più maturo rispetto al tuo primo lavoro.
Si, sono d’accordo. Ma è normale quando si cresce. Quando ho scritto “Scudetto” avevo 23 anni, adesso ne ho 3 in più. Il primo disco lo affronti sempre con più genuinità, in modo scanzonato, perché è sinonimo di gioventù, di verginità e forse è il motivo per cui è arrivato così tanto e a tante persone. In quest’altro disco sentivo il bisogno di fare un passo avanti e credo che risulti anche più impegnativo all’ascolto. Non è un disco per tutti.
“America” e “Cercasi amore” sono due dei singoli che hai scelto per anticipare il disco. Perché hai scelto questi due brani rispettivamente dalle sonorità jazz e rock, apparentemente diversi tra loro, per rappresentare il tuo nuovo lavoro?
In verità questi due brani che, in maniera suicida, ho scelto di far uscire prima, sono i due estremi del disco. In “Scudetto” non c’è un brano più delicato di “America” e non ce n’è uno più rock e incazzato di “Cercasi amore”. Sono due canzoni a parte rispetto al disco, mentre le altre 8 tracce hanno un loro fil rouge che le tiene legate. In un certo senso mi piaceva che ci fossero questi due poli opposti a guardare dall’alto al basso tutto il resto del disco.
“Ho semplicemente cercato di fare il disco più bello che potessi fare.”
Arrivi al tuo secondo album dopo un grande successo, quello di “Scudetto”. Come ti approcci a “Settebello” forte di questo bagaglio importante ?
Ho fatto tanta ricerca, ho studiato e lavorato tanto. Con “Settebello” voglio confermare tutte le cose che ho fatto con “Scudetto”, al di là del risultato finale, che è figlio di una concezione un po’ troppo occidentale e poco romantica. Il primo disco ha smosso delle cose e mi ha dato l’opportunità di fare questo secondo album, un’opportunità che voglio sfruttare al massimo. Per farlo dovevo rispettare la musica, i miei ascoltatori, e me stesso il più possibile e ho semplicemente cercato di fare il disco più bello che potessi fare. Da pigrone quale sono, è la prima volta nella mia vita che mi sono davvero impegnato in qualcosa. Mentre il primo disco è un jolly e lo vivi con la sensazione di poterne fare altri, il secondo è un calcio di rigore al 90°: devi segnare per forza.
Da cosa sei stato ispirato in particolare?
L’ascolto di tanti vinili dei giganti della musica mi ha aiutato moltissimo a livello di stimoli. I vinili sono come dei cimeli e, in linea di massima, compri le perle, quelli che hanno fatto la storia della musica. Io ne ho circa 200 a casa ed iniziano ad essere tanti, ma ho solo i grandi classici. Ascoltare i migliori tra questi artisti mi ha stimolato e, in maniera inconscia, mi ha fatto alzare l’asticella.
Sentivo il bisogno di sperimentare uscendo dalla mia comfort zone.
Nella lavorazione del disco hai collaborato con i Mamakass. Com’è nata questa sinergia e cosa ha portato in più al tuo percorso artistico?
Con i Mamakass ci siamo conosciuti tramite la Warner per cui siamo autori. Ci siamo trovati in studio ed è nata una grande stima artistica e umana. Riguardo al nuovo disco sentivo il bisogno di sperimentare uscendo dalla mia comfort zone. L’attitudine dei Mamakass è un po’ futurista e ho avuto la sensazione che questa potesse essere la scelta giusta e che loro avrebbero potuto seguire con me questo obiettivo meraviglioso di fare cose belle.
Definisci “Settebello” un disco coraggioso “con un occhio al passato e l’altro rivolto al futuro”. Cosa ti aspetti e cosa hai in programma per questo prossimo periodo?
Intanto il 20 marzo esce il disco su tutte le piattaforme digitali. Poi il fisico uscirà non appena questa situazione del Coronavirus sarà risolta. Per quanto riguarda i live, purtroppo, non ti so dire niente perché, essendo tutto fermo, è un’incognita.
L’idea del videoclip di “Settebello” da dove è venuta?
Metto bocca sui video solo quando ho un’intuizione, come nel video di “America” dove ho avuto l’idea di fare una sorta di citazione a “La la land”. Su “Settebello” non avevo particolari spunti e ho lasciato fare al regista, non è farina del mio sacco. In questo videoclip abbiamo voluto esprimere il succo del ritornello: detta in maniera brutale, nella vita, l’unica cosa certa è che muori. Siamo sempre in fila, come nel traffico, come ti dicevo prima. Perdiamo così tante ore che potremmo utilizzare meglio e poi, quando si va davanti all’altare della morte, siamo tutti uguali: dal più ricco al più povero, dal più bello al più brutto, dal bianco al nero. Per questo il regista ha voluto ricreare una fila con più personaggi diversi di cui tutti facciamo parte: dai nonni ai trans, dai pischelli ai medici. E anche io ho fatto la mia parte: all’inizio e alla fine come un Caronte o un Virgilio.
Nella copertina del disco perché sei riflesso nello specchio per metà?
A differenza del primo disco, dove ho messo un piede con un pallone, qui volevo metterci la faccia, anche se non per intero. “Settebello” è un disco che definirei chiaro/scuro, pieno di luci e di ombre, quindi ho pensato ad un vedo/non vedo e di conseguenza con il fotografo abbiamo pensato di inserire la mia immagine. Era coerente con il disco che, da una parte, fa intuire delle cose mentre, dall’altra, è chi ascolta che dovrebbe fare uno sforzo per andare incontro alla canzone. Comunque, quando ho visto la foto ho pensato “Voglio sia questa”.
Come ti trovi nella dimensione live?
Penso di essere molto bravo. Tu che ne pensi? (ride).
Direi di si. Ti ho visto la prima volta circa tre anni fa live all’Ex Dogana in apertura ai Canova e Gazzelle. Eri al piano e alla voce, accompagnato dal tuo chitarrista, e la tua scrittura mi era sembrata molto interessante. Credo non fosse nemmeno uscito il tuo primo disco.
Beh grazie! Si, doveva ancora uscire tutto, non era fuori nemmeno “Occhiaie”. Comunque il live mi piace molto. Il mio primo concerto come Marco, non come Galeffi, l’ho fatto molto tempo fa. Suono da dieci anni, non sono sbucato fuori “dall’Internet” e di gavetta ne ho sempre fatta tanta. Non mi è mai caduto nulla tra le mani, tutte le piccole cose sono state conquistate briciola dopo briciola.
https://www.noisesymphony.com/2018/07/04/galeffi-porta-la-sua-estate-italiana-villa-ada-photogallery/
Uno dei primi singoli estratti dal nuovo disco è “Dove non batte il sole”: una canzone sull’inadeguatezza e l’inquietudine che viviamo ogni giorno. Qual è, secondo te, l’ombra che aleggia sulle nuove generazioni oggi?
Probabilmente questa nostra generazione è nata in un periodo florido, economicamente parlando, e siamo cresciuti un po’ da viziati per poi ritrovarci in piena crisi economica. Durante la crescita, tutte le cose che avevamo dato per scontato ci sono state tolte. La realtà è cambiata improvvisamente, come se avessimo vissuto in due periodi storici diversi: uno di benessere e uno in cui hai capito che, per ottenere le cose, ti devi fare il culo. Questo, ci ha fatti precipitare nella depressione, nella paura di metterci la faccia e lanciarci nel vuoto perché scommettere su se stessi fa più paura che mai.
Scendere così in basso da avere una reazione e trovare uno stimolo
Comunque, attraverso la tua musica, puoi sempre inviare un messaggio positivo che sia di aiuto.
Quello me lo auguro e, sicuramente, la cosa che posso consigliare è di non mollare mai. Cerco sempre di sopravvivere quando le cose si fanno brutte, e di prendere il più possibile da quello che arriva quando è il momento di accelerare. Ho fatto mille lavori: ho il patentino da pubblicista dal 2012, ho lavorato in redazioni, in negozi di dischi, di dvd, di vestiti. L’importante nella vita è fare, e quando non faccio niente è per ricaricare le pile o per cercare di scendere così in basso da avere una reazione e trovare uno stimolo. Quello che dico ai miei coetanei è di scegliere bene le persone con cui stare e le cose da fare, dare un senso alla vita mettendo tutta la cura possibile in quello che si fa perché vedo troppo pressappochismo.