40 anni di U2. Era infatti il 25 settembre del 1976 quando quattro ragazzi di Dublino si incontravano nella cucina di casa Mullen per le prime prove di una band che sarebbe diventata il simbolo del rock impegnato.
40 anni fa un giovane batterista alle prime armi, di nome Larry Mullen jr. affiggeva nella bacheca della Mount Temple School di Dublino, un annuncio alla ricerca di musicisti per formare una band. A quell’annuncio rispondevano tali Paul David Hewson, Adam Clayton e David Howell Evans con suo fratello Dick, che però lascia subito la neonata band per formare i Virgin Prunes.
Fin qui nulla di particolarmente diverso da quanto accade a tanti altri col sogno della musica. Nessuno tra di loro poi, sembra a prima vista avere particolari doti musicali, ma la storia di quei quattro che, dopo aver attraversato diversi cambi di nome, diventeranno gli U2 sembra avere da subito un destino già segnato.
Dicono che “se ci credi si avvera”. Ma dev’esserci qualcosa di più, perché non basta semplicemente convincersi per poterci riuscire. Devi essere bravo a portare anche gli altri nel tuo mondo, affinché diventi il loro, e collaborino al bene comune della visione che ti frulla per la testa. E’ un mix di ingredienti vincenti che funziona una volta sola nella vita. Poi a volte, dopo aver gettato le fondamenta, ti trovi anche costretto a passare il testimone perché qualcun altro, più sfrontato di te e con capacità di leader, ti prenda per mano mettendosi alla guida del tuo sogno per portarlo alla meta.
La storia della band che continua a scrivere pagine di musica da 40 anni la conosciamo tutti. Ma cos’è che ha reso così speciale l’alchimia tra questi quattro eterni ragazzi e il loro pubblico prima di tutto?
Quello che li ha resi vincenti è probabilmente l’aver saputo interpretare il sogno di tanti altri accomunati da destini simili e dargli voce, con una risonanza tale da varcare ogni confine geografico.
In un paese dilaniato dal conflitto nordirlandese, Bono trovava le parole esatte per comporre un inno che oggi più che mai è ancora attuale. In Sunday Bloody Sunday canta “How long must we sing this song?”. E’ un grido stanco che è diventato simbolo, ma“non della ribellione”. Quello che si proponeva era di provare, da un palco, a risvegliare le coscienze comunicando che c’è molto altro da fare invece che rimanere impotenti davanti alle news mentre quelle immagini di dolore scorrono davanti ai tuoi occhi. Una sensazione che, cambiati i tempi, cambiate le menti, resta viva anche oggi.
C’è chi dice che se fai il cantante devi lasciar fuori la politica. Io sono invece convinta che chi abbia la possibilità di mandare un messaggio attraverso un microfono, per smuovere il cambiamento, debba avere la possibilità di farlo. E’ necessario che lo faccia, perché il più delle volte non si tratta di politica, come ha spiegato lo stesso Bono, accompagnato da The Edge durante il Sanremo nell’anno del Giubileo, ma della “vita della gente”.
Non è un segreto che Bono & co. in questi 40 anni si siano ispirati a tanti altri personaggi, predecessori e contemporanei, nella ricerca della loro identità. A partire dai primi anni di “Cedarwood Road” raccontata nell’ultimo album Songs of Innocence, nell’ambiente punk/rock con gli amici storici Guggi e Gavin Friday, attraverso il “musical journey” americano ripreso nel film “Rattle & Hum” che accompagna l’album dallo stesso titolo, fino alle collaborazioni con nomi come Lou Reed e Johnny Cash.
Fortunato è l’incontro con il manager Paul McGuinnes, che crede da subito nella band, fino a procurargli il contratto con la Island Records. I 4 iniziano a lavorare al primo disco “Boy”, che sarà poi una delle migliori opere prime di una band emergente, sotto la supervisione del produttore inglese Steve Lillywhite (Peter Gabriel, Talking Heads…tanto per citarne un paio).
In “Boy” si riconosce da subito il suono distintivo di quello che Bono ribattezza col nome di The Edge per le sue linee spigolose. Un ragazzo all’apparenza timido, ma che da lì in poi avrebbe ispirato con i suoi effetti e pedali ogni altro appassionato della chitarra elettrica in esplorazione di mondi sonori sconosciuti. A questo proposito è consigliata la visione del film documentario del 2008 “It might get loud” di Davis Guggenheim che racconta la chitarra elettrica attraverso il punto di vista di tre tra i più grandi musicisti rock: The Edge appunto, Jimmy Page e Jack White.
“I will follow”, brano che continua anche oggi a far saltare tutto il pubblico ai loro concerti, apriva l’album d’esordio. Lì dentro c’era tutto il Paul Hewson ragazzino che si trova faccia a faccia con l’improvvisa morte della madre: “Un ragazzo cerca disperatamente di diventare un uomo/Sua madre lo prende per mano/ Se si ferma a pensare lui inizia a piangere. Perché?”
Lillywhite cura il suono degli U2 anche per i successivi October e War. La loro identità rock si fa forte e nei testi Bono dimostra di non aver alcun timore a parlare in prima persona. In “Tomorrow” ritorna il tema della madre, che poi lo accompagnerà per tutta la sua vita; poi la chiara professione di fede con “Gloria”, “Rejoice” e “With a shout (Jerusalem)”: “Voglio andare/ Ai piedi del Messia/ Ai piedi di colui che mi ha permesso di vedere”.
Il testimone passa a Brian Eno che, come se non bastasse, si porta dietro l’ingegnere del suono Daniel Lanois. E’ il 1984 ed esce il quarto album in studio “The Unforgettable Fire”. Il titolo viene ispirato dall’omonima mostra fotografica in ricordo delle vittime di Hiroshima e Nagasaki. Un album evocativo dalle tinte eteree e ambient, mood che contraddistingue da sempre i lavori di Eno.
Con “The Unforgettable Fire” gli U2 riescono a stordire chi si aspettava l’ennesima rock band da stadio. In verità lo diventano, ma in modo un po’ meno convenzionale rispetto agli schemi conosciuti. Invertono la tendenza imboccando una strada mai battuta prima e questa resterà per sempre la prerogativa di ogni loro mossa. Hanno spesso rischiato di perdere qualche fan della prima ora, ma la sana presunzione di poterne acquistare di nuovi ha dato loro ragione. Inoltre ha vinto la certezza che, anche se ti prendi una vacanza, non potrai mai comunque allontanarti del tutto dalla tua famiglia di origine.
Gli U2 sono partiti dalla verde Irlanda alla conquista del nuovo mondo sulle orme di quell’ Elvis Presley, tanto amato da Mullen. Hanno scavato nelle profondità del Gospel e baciato da vicino il culo del consumismo e della globalizzazione. Se ne sono fatti beffa, prima portando in scena lo Zoo Tv e poi il Pop Mart Tour, tra limoni e stuzzicadenti giganti innalzati sul palco. Si sono allontanati da casa, tornando però sempre dalle loro famiglie e dai soliti amici, perché hanno capito che quello che ti aiuta a restare vivo è ricordare da dove sei partito.
Gli anni passano per tutti e loro, chitarre e timbro vocale riconoscibilissimi a parte, sembrano essere fuori da un suono che li incateni ad un punto. A forza di “singoloni” ed esplorazioni in ogni direzione musicale, riescono a sfoderare sempre la carta vincente.
Cavalcando l’onda dell’evoluzione culturale, e addirittura anticipandone i tempi, gli U2 hanno inventato tendenze, ribaltato le regole del mercato musicale, e ridefinito la dimensione del live. La band non viene più concepita come quella che guardava il pubblico ai suoi piedi dall’alto di un palco. Grazie all’uso di megaschermi e passerelle che attraversano la folla, hanno portato la gente comune dentro ai loro show e resa partecipe di quanto accadeva lì sopra e, contemporaneamente, nel mondo. Hanno dato un nuovo significato alla parola concerto, usandolo come strumento per smuovere le coscienze: per Nelson Mandela e la sua Africa, per le vittime di Enniskillen, per Sarajevo, per i diritti umani, e per i rifugiati…
La celebrazione del loro quarantesimo compleanno è accompagnata, già da qualche tempo, dalla notizia che presto arriverà il nuovo album “Songs of Experience” seguito da un tour mondiale. Da queste parti abbiamo la certezza che faranno centro anche stavolta!
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